The kids aren't alright - UN GIOCO DA BAMBINI di J. G. Ballard
Quel romanzo in cui Ballard decide di inimicarsi i fan del gentle parenting e i pedagogisti tutti
"In una società totalmente sana, l'unica libertà è la follia". [J.G.Ballard, Un gioco da bambini, trad. di F. Castellenghi Piazza, Edizioni Anabasi, 1992, p. 86]
Mettiamo le mani avanti subito così poi possiamo concentrarci sulla recensione.
J. G. Ballard e io non andiamo d’accordo.
Il condominio l'ho terminato perché avevo in mente un altro condominio (quello di Il demone sotto la pelle del buon vecchio Cronenberg) e volevo capire quanto le due opere si avvicinassero tra loro (spoiler: poco. Molto poco. Anche se il tema di partenza si può dire comune). Ho iniziato Il mondo sommerso cinque anni fa, e non sono riuscita ad andare oltre il primo capitolo. Con Crash mi sono fermata alla prima pagina.
Il problema – mio – è che Ballard mi annoia (orde di ballardiani marciano in assetto di guerra). Precisiamo: mi annoia non per quello che dice, ma per come lo dice. Trovo il suo stile così asciutto che mi è capitato di leggere atti notarili più appassionanti.
Mi si dirà: Federica, ma tu critichi lo stile del traduttore, mica Ballard scriveva in italiano. Lo sai, no?, che quello che stai leggendo è una rimasticatura del testo originale e che, da brava pulcina in vena di gozzovigliare con letterature d'altri Stati, non fai che inghiottire boli ridigeriti di quelle stesse opere?
Certo, amico mio, ne sono consapevole. Ma permetti la contro obiezione: se su quattro romanzi che leggo, o provo a leggere, la sensazione è sempre la stessa, mi viene il sospetto che la colpa qui non sia tanto del traduttore quanto di chi quell'opera l'ha pensata e scritta nella sua lingua madre.
Che, poi, "colpa".
Intendiamoci, lo stile di J. G. Ballard può benissimo piacere ad altri (lo si continua a ristampare, quindi il dato è certo), mentre io, ogni volta che provo a leggere una delle sue opere, ho l’impressione di arrancare nel deserto con la gola in secca e la certezza che non troverò un’oasi né un bicchierino d’acqua fino alla fine del romanzo. E a quel punto, mi arrendo. Sono una pusillanime: che posso farci?
Ciò premesso, eccomi qui a parlare di Un gioco da bambini [tit. or. Running Wild] novelette che, per la sua brevità, sono fortunosamente riuscita a leggere da cima a fondo, buttandola giù come si farebbe con una chianina stracotta e mezzo carbonizzata e senza neppure un goccio di vino ad accompagnarla. E non mangio carne da una vita.
Per farlo, però, devo prima parlarvi di una cosa che con il romanzo (lungo racconto? In fondo, sono poco più di 100 pagine di libro) c'entra - quasi - niente.
Devo parlarvi di Novi Ligure.
Non so se ve lo ricordate quel periodo, quando non c'era apertura di tg che non contemplasse il duplice omicidio di Novi. Vi ricorderete anche che all'inizio, tenendo per buona la testimonianza di E., aveva preso piede la "pista albanese".
Siamo a pranzo, il tg ha appena aperto con la notizia.
"Figuriamoci", sbotto, dall'alto delle mie letture impegnate (Assassine di Cinzia Tani, Mindhunter e L'enciclopedia dei serial killer curata dal mai troppo compianto Pinketts, tra le prime che mi vengono in mente), "secondo me è stata lei e quell'altro".
A quel mio sfoggio di perspicacia investigativa mio padre, invece di complimentarsi, si incazza. Come potevo anche solo pensare che una ragazzina avesse il cuore di uccidere la madre e il fratellino? Che razza di mostro ero?
Il fatto è – ma l'ho capito solo più tardi – che mio padre ragionava da genitore. Per un genitore sarà sempre preferibile credere al mostro che viene dall'esterno piuttosto che convivere con l'idea che il potenziale orrore tu ce l'abbia in casa. Giocava forse anche il fatto che io ed E. eravamo coetanee, così come coetanei erano suo fratello e il mio.
Insomma: io non ero E., ma avrei potuto esserlo.
E forse con Novi Ligure mio padre - uomo dal buon cuore e dalla scarsa dimestichezza con la cronaca nera più abietta - si rese conto per la prima volta che i figli possono fare paura. Che nessun genitore, per quanto affettuoso o presente, quei figli li conoscerà mai a fondo. Che anche se condividono il tuo stesso patrimonio genetico, per te saranno sempre degli estranei.
Ed ecco che arriviamo a Ballard e al suo gioco da bambini.
I fatti: tredici ragazzi massacrano, senza ragione apparente, i rispettivi genitori.
Svolgimento: tutti, dall'opinione pubblica agli investigatori, sono disposti a formulare e a credere a qualunque teoria alternativa piuttosto che scendere a patti con la realtà.
Perché la realtà è più allucinata dell'ipotesi che a far fuori i residenti del Pangbourne Village siano stati gli alieni.
"Quei tredici adolescenti, cui veniva negata ogni espressione del sé e nei quali anche gli impulsi più ribelli venivano disinnescati dall'infinita pazienza dei genitori, si erano trovati intrappolati in un eterno carosello di lodevoli attività – e al Pangbourne Village gli elogi e gli incoraggiamenti, meritati o immeritati, venivano elargiti con estrema liberalità. Tutto sommato, quei ragazzi vivevano in uno stato molto simile alla deprivazione sensoriale". [p. 85]
Ballard è chirurgico, nel senso che ho attribuito al termine all'inizio di questo post. Non coinvolge neppure per sbaglio il lettore. Semplicemente, lo mette di fronte alla realtà. Gli dice: "guarda". Gli dice: "ascolta". Gli dice: "hai capito?" E se ne va battendo le mani e pogando con fierezza per l’assoluta veridicità del proprio assioma.
Un gioco da bambini parte da premesse simili a Il condominio. Pangbourne Village è una zona residenziale recintata e ultra protetta, un piccolo Eden dove l'alta borghesia vive il suo sogno dorato e cresce la sua dorata progenie.
È un condominio orizzontale, per così dire, dato che al Pangbourne tutti vivono allo stesso livello. Appartengono alla stessa classe sociale. Sono tutti ugualmente solleciti nei confronti della prole che curano e amano con un'intensità al calor bianco. Sono padri e madri cuscinetto, sempre pronti a coccolare, vezzeggiare, spronare, capire i propri figli.
"Questi ragazzi non si stavano ribellando contro la crudeltà o la ferocia. [...] Quello che non riuscivano più a tollerare era il dispotismo della bontà. Hanno ucciso per liberarsi dalla tirannia dell'amore parentale". [p. 63]
Non c'è ribellione che tenga o impressioni al Pangbourne, perché ogni tentativo di ribellione viene soffocato sul nascere nell'abbraccio da rampicante del genitore comprensivo, quello che sa che l'adolescenza è un percorso difficile, che i ragazzini possono essere irruenti, sta a lui impedirgli che si facciano troppo male.
Ci vogliono controllo e disciplina, ma non quelli elargiti a furia di divieti e contestazioni, fonte di stress. Dialogo, ci vuole. E compromesso. E se il ragazzo vuole fare le sue esperienze, perché no?, purché ci sia un adulto a fare da supervisore. Per evitargli ogni genere di spiacevole conseguenza.
"Vuoi fumare ragazzo? Puoi farlo se vuoi. Ti sei mai ubriacato, figlio mio? La vuoi una birra? Che ne dici di provare un po' di Lsd in un ambiente controllato, come Huxley? Ti ricordi, no?, Huxley e le porte della percezione. Ne abbiamo discusso un mese fa. Anzi, c'è un documentario sugli effetti della droga che vorrei guardare con te. Ho visto che hai un'intera collezione di Playboy nel cassetto delle mutande. Arrabbiato? E perché dovrei? È nel tuo diritto essere curioso, non devi nascondere le tue pulsioni. Anzi, perché non commentiamo la coniglietta del mese? Hai visto come la luce cade su quel seno, illuminandone l'areola?"
Va a finire che i ragazzini, schiacciati da tanta comprensione genitoriale, esplodono.
Ma la loro è un'esplosione anodina, asettica. Compiuta senza alcuna passione, solo per dovere. È un atto terroristico in piena regola. Ogni singolo parricidio e matricidio che viene commesso a Pangbourne corrisponde, nella logica dei ragazzi, a un tirannicidio.
"Come se Peter Pan, finalmente cresciuto e divenuto uno psicopatico alla Ian Brady, fosse ritornato dall'Isola-che-non-c'è e avesse subdolamente indotto i tredici ragazzi ad assecondare le sue torbide fantasie". [p. 52]
I genitori del Pangbourne sono tirannici non perché impediscono ai figli di fare ciò che vogliono ma perché, all'opposto, glielo consentono. Perché impediscono loro di essere dei ribelli, degli outsider. Di essere qualcosa di diverso – migliore, peggiore non importa – dei loro vecchi. Perché hanno sottratto loro la furia incomprensibile che agita l'adolescenza, ne hanno soffocato il fuoco devastatore a forza di pacche sulle spalle e condiscendenza.
C'è una scena in particolare, nel racconto, che spiega bene il clima di insostenibile tolleranza del Pangbourne. Nella ricostruzione degli omicidi, a un certo punto Ballard mette in mezzo un fumetto dell'orrore e la madre, che lo raccoglie dal vialetto di casa pochi secondi prima di essere investita dal figlio, si scambia un'occhiata tra il perplesso e il disgustato con il marito. Bisognerà parlare con il ragazzo, dice quell'occhiata. Quello che il lettore legge tra le righe è che sarà un dialogo tutto incentrato sulla razionalità: cosa ti attira di questo fumetto, figliolo? Che ne dici di farcene una relazione?
All'epoca dei miei quattordici o sedici anni i miei scoprirono che avevo preso in prestito dalla biblioteca un libro di Bukowski. Uno di quelli che già dal titolo capisci dove l'autore vuole andare a parare. Poi leggi i racconti ed è anche peggio di quello che ti aspettavi. A me Hank piaceva. Per i motivi per i quali può piacere Bukowski a un'adolescente in piena tempesta ormonale. Perché era rozzo. Perché era osceno. Perché aveva il coraggio di essere entrambe le cose e, meraviglia, veniva perfino pagato per esserlo. Ai miei la cosa sembrò degna della galera. Prima che avessi il coraggio di rimettere piede in biblioteca, dove immagino mio padre abbia marciato con piglio militare a dire che non dovevano mai più azzardarsi a fornire quelle zozzerie alla figlia, trascorsero tre mesi. Tre mesi in cui imparai a farmi furba e a nascondere alla vista pudica dei miei qualsiasi cosa - da King ai libricini sui serial killer - potesse rovinargli il ricordo della bambina che non ero più.
Una vicenda del genere, al Pangbourne, non sarebbe mai successa.
Ma, dice Ballard, è proprio questa assenza di scontro tra generazioni a rendere i ragazzini delle insensibili, micidiali macchine omicide.
L'impossibilità della naturale ribellione adolescenziale è una mancanza così grave da trasformarsi in trauma. Un trauma che sfocia in una violenza fredda e calcolatrice. Violenza (e qui la pianto) che Ballard ci rifila in una salva impersonale di immagini scandite dal ticchettio di un orologio, in quello che è il memoir del dottore incaricato dal Ministero di fornire una spiegazione ai crimini, proprio sul finire del racconto.
Un gioco da bambini è un racconto a tesi (esistono?) come, del resto, Il condominio era un romanzo a tesi (do per scontato che esistano). Partendo dal presupposto A io scrittore dico che si arriverà alla conseguenza B. e ora ve lo dimostro.
È una buona storia? Nì. È un what if di tutto rispetto, che tratta temi forse addirittura più attuali oggi rispetto all'epoca in cui Ballard si metteva a sedere dietro la macchina da scrivere. Solo che, personalmente, non l'avrei scritto così.
Perché così com'è è un articolo di cronaca, né più né meno, anche se quella cronaca se l'è inventata Ballard.
Niente di quello che avete letto è accaduto davvero.
Almeno per il momento.
"Quei ragazzi avevano una disperata fame di emozioni genuine, avevano bisogno di genitori che ogni tanto li disapprovassero, che si irritassero e si spazientissero, o persino che non riuscissero a capirli. Avevano bisogno di genitori che non si impicciassero di tutto quello che facevano, che non temessero di mostrarsi nervosi o seccati, e che non pretendessero di amministrare ogni minuto della loro vita con la saggezza di Salomone". [p. 69]