Il coro delle Baccanti presenta: OSSESSIONE di Stephen King
Di quella volta che King presentò la hybris a un gruppo di ventenni spaesati e davvero molto incazzati
Mi sono sempre chiesto che effetto facesse trovarsi in mezzo a una di quelle folle a gridare senza poter sentire la propria voce, privato momentaneamente di ogni individualità, smarrito nella cieca empatia dell'esuberante, rabbiosa anticipazione della folla, gomito a gomito e spalla a spalla con tutti e nessuno. [Ossessione di Stephen King, pp. 223-224]
Quando Stephen King scrive Ossessione – Rage, il titolo originale – è il 1966. King, che è nato nel '47, non ha ancora compiuto venti anni. Il romanzo viene pubblicato sotto lo pseudonimo di Richard Bachman undici anni dopo, nel '77 - ne sono passati tre dalla pubblicazione di Carrie - ma a questo punto le date non interessano più, sono solo nota bibliografica.
L'anno giusto da tenere a mente è il 1966.
King è un diciannovenne all'ultimo anno di liceo. Mancano tre anni all'eccidio di Cielo Drive, due alla pubblicazione di Verso Betlemme, il reportage sulle comuni americane di Joan Didion. Sono gli anni della controcultura, del malessere diffuso, di una società che non sa dove tendere perché ha perso ogni riferimento; la bussola si è rotta, l'ago vortica impazzito e la droga, l'alcol – suicidarsi, impazzire – sono gli unici modi che si danno per abbandonare – o tentare di abbandonare - la nave alla deriva.
Nel 1966 King ha diciannove anni e a me viene da dire che è quell'età in cui il talento si manifesta. O ce l’hai, o tocca venire a patti con la consapevolezza di essere uno dei tanti picogrammi anonimi che compongono la massa degli esseri umani sparsi sul pianeta.
Diciannove anni è quell’età in cui ti rendi conto che non c'è un posto dove andare: ti affacci sull'età adulta e ti prende la vertigine per quanto è profondo l'abisso nel quale sei costretto a gettarti, che tu lo voglia o meno.
È l'età in cui la rabbia accumulata durante la macchina infernale dell'adolescenza – quell'impulso ad agire, distruggere, ricreare, essere – si trova finalmente libera di esprimersi in maniera non caotica. Se hai abbastanza autocontrollo, quella rabbia può mutarsi in energia, cazzimma, voglia di “diventare qualcuno” qualunque cosa significhi. Se hai talento, quella rabbia sarà un utile propellente aggiuntivo. Ma che tu sia predestinato alla storia o meno, il rischio è sempre altissimo. E basta un niente perché la rabbia si impossessi di te trasformandoti, lei, nel suo strumento. Nello strumento della rabbia. Della furia. Del caos.
Della tua autodistruzione.
Ossessione è forse il più sincero tra i romanzi scritti da King. Perché, al di là delle limature e dei rimaneggiamenti che può avere apportato al testo negli undici anni di gestazione, non tradisce mai quella rabbia che chiunque ricordi i propri diciannove anni sa riconoscere. Quella disperazione di fondo che ne è sedimento.
Il ragazzo che piglia una pistola e tiene in ostaggio una classe intera è cronaca, ma è anche l'idea che probabilmente più di qualcuno avrà accarezzato – senza, ovviamente, mai valicare il confine che separa la fantasia dalla realtà - come quando imbottigliati sul GRA ci balocchiamo al pensiero di montare un carrarmato per fare strage di lamiere.
Quel ragazzo che pensa che nessuno, oltre lui, abbia sofferto tanto e allora si mette in testa di far soffrire gli altri tal quale è al tempo stesso la creatura più tragica e più comune del teatro umano. Perché non ha ancora i mezzi per rendersi conto che quell'esperienza di traumi veri o percepiti tali – il padre che ti tira un pugno è certo diverso dal padre che ti requisisce la Play per un mese - che quella sofferenza che prova ogni mattina quando infila uno zaino per passare cinque ore in un'aula scalcinata di una scuola di provincia; che tutti quei micro-accidenti che pensa lo rendano in qualche modo speciale, eroe tragico di una qualche epica, non lo sono. Sono esperienza condivisa. Sono dolori, frustrazioni, insoddisfazioni comuni.
“In questa fulgida giornata ed epoca in cui tutti credono che la psicologia sia un dono di Dio alla povera razza umana rimasta fissata alla fase anale e persino il presidente degli Stati Uniti manda giù un tranquillante prima di cena, è sicuramente un buon sistema per scaricarsi di quelle colpe da Vecchio Testamento che continuano a tornarti su per la gola come un’indigestione di cibi cattivi. Se dici che tuo padre ti ha odiato quando eri piccolo, poi puoi andartene in giro a mettere a ferro e fuoco il vicinato, a violentare o a incendiare qualche bar, per poi appellarti all'infermità mentale. Ma significa anche che nessuno ti crederà se è vero”.
Sono davvero pochi gli esseri umani dotati di una qualche specialità, il cui nome resterà impresso nella memoria di molti per decenni, se non secoli, dopo la loro morte. Tutto il resto è rumore di fondo, è l'umanità che si arrabatta, che nasce, cresce, si riproduce e abbandona la vita nel ciclo naturale che le è concesso sperimentare. “La vita non è che un’ombra vagante, un povero attore che avanza tronfio e smania la sua ora sul palco, e poi non se ne sa più nulla” scriveva Shakespeare secoli fa; “un racconto fatto da un idiota, pieno di grida e furia, che non significa niente”. [Macbeth, Atto V, scena V]
In Ossessione King - non il re scespiriano ma quello che ha appena scoperto che sta per finire nella fossa dei leoni dell'età adulta – questa cosa la percepisce profondamente. E ne è terrorizzato. Ne è terrorizzato al punto da arrivare a scegliere di immolarsi metaforicamente come forma di esorcismo.
Più che nella voce narrante, infatti, King si cela nella vittima – la vera vittima – del romanzo. [E qui - spiace per lo spoiler - vi informo che Ossessione è tutto tranne che la festa del gore come pure ho letto in giro. Tra i tanti romanzi del Re, anzi, è probabilmente il più “asciutto”].
Quello che segue, nelle brevi pagine che compongono il romanzo, è il racconto di un sacrificio umano compiuto dalla massa che, improvvisamente, scopre di non essere altro che rumore di fondo. E questa scoperta ne scatena la furia. L’odio cieco ma non insensato, perché il senso folle del suo agire risiede nel desiderio di ripristinare un equilibrio. Di annientare colui che dalla medietà si distacca.
"And I have a recurrent nightmare, that I was loved for who I am, and missed the opportunity, to be a better man" cantano i Muse, in una canzone scritta parecchi anni dopo Ossessione ma che potrebbe benissimo fare da colonna sonora per l’atto finale.
Perché il miglioramento altrui è percepito come una minaccia alla propria felicità, come il rischio di specchiarsi nella propria ordinarietà. Perché o siamo tutti speciali o non lo è nessuno. Perché o il talento è di tutti o nessuno deve averne. E come osi, tu, essere da noi diverso. Perché non ti getti con noi nel fango, noi che t’amiamo ma non si può amare che chi ci è simile, e poiché non possiamo renderci simili a te o degradi o muori, o rinunci o ecco i falcetti, le pietre, le unghie. È il caro vecchio concetto di hybris, traslato dal divino all’umano.
Ed ecco allora che il finale di Ossessione - quello che da solo vale il prezzo del biglietto - mette in scena la terribile e angosciante riproposizione del mito di Orfeo fatto a pezzi dal corteo delle Baccanti; di Marsia scuoiato vivo dal dio geloso del suo talento mentre le Muse eccitate ne incitano il linciaggio.
Ossessione non è un romanzo di formazione. Non è neanche, come alcuni imbecilli hanno creduto, il romanzo che vuol suggerire che imbracciare un uzi in una scuola sia la cosa giusta da fare per alleggerirsi l’animo. Ossessione è prima di tutto un romanzo apotropaico. L'esercizio scaramantico di un diciannovenne consapevole del proprio talento che, nel calare sull’età adulta, osserva con orrore i rictus primordiali che si agitano sotto la maschera benevolente della società che gli tende le braccia pronta ad accoglierlo. O a dilaniarlo.
“Loro credono che mi piaccia. Così ho di nuovo un segreto. Finalmente ho di nuovo un segreto”.