L'amore, sopra ogni cosa. LE VOCI CIECHE di Tom Reamy
Quel romanzo che starebbe bene nella filmografia di Guillermo del Toro
I cavi del telefono avevano cantato a lungo, a fianco delle strade e attraverso i campi. Era il circo più fantastico che si fosse mai visto. Era un'esperienza memorabile, uno spettacolo da non perdere. Era l'Esposizione Colombiana e la Cometa di Halley messe insieme. [Tom Reamy, Le voci cieche, trad. di R. Rambelli, Armenia, 1980, p. 63]
C’è un blurb, sulla copertina di Le voci cieche. È di Harlan Ellison che ci tiene a dirci che questo libro “È bello da mozzare il fiato”.
Ora io, che di H.E. tendo a fidarmi più che di me stessa – perché se non puoi fidarti di un autore come lui allora non c'è proprio più nulla in cui credere e davvero il grande dio Pan è morto – se leggo una cosa del genere su una copertina, prima di iniziare a leggere come minimo vado a comprare un boccaglio.
Ma un blurb è pur sempre un blurb e i facili entusiasmi sono quelli che più rapidamente pigliano fuoco e in un lampo si riducono in cenere. E perciò mi tocca dire che, invece, si respira piuttosto benino durante la lettura di Le voci cieche, e quelle bombole d'ossigeno lì non hanno alcuna ragione di essere acquistate.
E dunque si riconferma la regola per la quale “ingannevole è il blurb sopra ogni cosa”? Al contrario. Più semplicemente, quello in copertina è un soffietto molto generoso per un romanzo che tutto sommato se la cava benissimo anche senza stampella. Senza contare che stiamo pur sempre parlando di un romanzo con ben quarant’anni sopra la gobba, e i lettori di oggi hanno una sensibilità diversa - siamo più coriacei? chissà - di quelli di allora.
Comunque. Il romanzo viene pubblicato in Italia da Armenia nella collana Fantascienza nel 1980. Nel 1980 Reamy era già morto da tre anni, Le voci cieche è il suo unico romanzo – l'unico del quale si abbia notizia - e la sua fu dunque una pubblicazione postuma così come postuma e, per così dire, “alla memoria”, fu la sua presenza tra i finalisti del Nebula del '79. Non è un'opera sensazionale, difficilmente griderei al capolavoro - ma neppure chiederei indietro i soldi del biglietto; non è un romanzo da restare senza fiato, ma un'onesta e delicata storia di amori e mostri, di quelle che Guillermo del Toro arriverebbe a vincerci un altro Oscar se solo gli venisse il guizzo di trasporla su pellicola.
Le voci cieche segue, cronologicamente, Il popolo dell'autunno di Bradbury e Il circo del dottor Lao di Finney. Tutte e tre opere ambientante nei baracconi dei freakshow, nei lunapark delle meraviglie dove fenomeni umani e bestie allucinanti convivono e si esibiscono per la delizia dei comuni mortali.
Il circo di Haverstock approda in una sonnolenta cittadina del Midwest – il romanzo è ambientato negli anni che precedono lo scoppio della seconda guerra mondiale – proprio nello stesso fine settimana in cui l'unico cinema della zona ha in programma di proiettare la prima pellicola completamente sonora.
È la fine dell'epoca d'oro di Hollywood e l'inizio della modernità. Il baraccone di Haverstock si trova quindi simbolicamente ad attraversare il fossato che separa due epoche. Haverstock e le sue creature sono rappresentanti di un mondo che sta per scomparire – un mondo dove la magia aveva un senso, una sua dignità e una sua poetica. Dopo, non ci saranno altro che le camere da presa pronte a strappare l'illusione dagli occhi di chi trova una consolazione nel credere all'uomo elettrico e alla donna invisibile, per tuffarli nel grigiore di una realtà nella quale il divino e il magico sono trucchi di scena, non opera di dio né del diavolo ma meccanismi, fili di nylon e giochi di specchi. S'è strappata la tela del Mago di Oz, verrebbe da dire. E il mondo si è fatto sì più robusto e concreto, ma anche un po' più triste.
Non a caso i prodigi che Reamy affida a Haverstok non sono i “comuni” fenomeni da baraccone ma chimere del passato pescate a piene mani dalla mitologia greca: il Minotauro, la Donna serpente, Medusa, la Sirena. Accanto a questi si esibiscono attrazioni più ordinarie, tra un intermezzo e l'altro. E, sopra tutti, troneggia l'inconcepibile astratto divino: Angel.
Angel è una creatura sovrumana, in grado di tramutarsi in terra, acqua e vapore; di generare fulmini; di morire tra le fiamme e risorgere. È tutto un trucco? Chissà. È bene, ad ogni modo, che il pubblico lo creda. In quell'afoso fine settimana d'estate, con la minaccia sempre viva degli uragani e di qualcosa di peggiore che se ne sta in agguato sull'orlo del tempo, e quel caldo che dà alla testa, che toglie il respiro, che intorpidisce i sensi e rende più languidi i pensieri. In quell'estate di attesa, nel corso della quale tre amiche si avventurano nel mondo, alla scoperta di un nuovo piano d'esistenza: non più studentesse ma donne, e il futuro che le aspetta è un futuro già assegnato alla nascita.
Francine, Rose, Evelyn. Anche tra loro si cela un piccolo mostro, un mostro fatto di opportunismi e di infantili giochi d'astuzia. Ma tra queste tre ce n'è una che, ricalcando il mito di Amore e Psiche, si imbarcherà nell'impresa – all'apparenza impossibile – di fondere l'umano con il divino.
Reamy, che aveva trascorso gran parte della sua vita a lavorare nel e per l'industria cinematografica, scrive come se al posto di una penna avesse tra le mani una macchina da presa. Ed è attraverso lo sguardo dei protagonisti che si concentra di volta in volta su piccoli dettagli - una smorfia, un'ombra, la peluria rasa e dorata che copre gli arti del “mostro”, il sole che colora d'ambra i campi pronti per la mietitura - che il lettore ha esperienza degli eventi. Ci si fa piccoli come sorci con il lillipuziano Tim; si avverte l'oppressione della morte quando questa arriva per l'incolpevole vittima; il fuoco brucia le guance nell'esplosione del furore del capo-baraccone che tutto distrugge per semplice capriccio, per odio, per dispetto.
E forse ho già detto troppo – anche se questo piccolo spoiler, vi assicuro, non è sufficiente a guastare la lettura per chi vorrà imbarcarsi nell'impresa.
Ma lasciate che vi dica ancora questo: che Reamy dà il meglio di sé nel tratteggiare le sue protagoniste, nel dirigerne gli sguardi. Le ragazze, come triplice espressione della femminilità, sperimentano tre vie diverse alla sessualità: quella brutale e omicida; quella della passione colpevole; quella dell'amore naturale e complice. E tutto sempre con una compostezza che - questa sì - lascia senza fiato. Il sesso narrato da Reamy - anche nella sua forma più feroce - non è quello caricaturale e meccanico che ritroveremo poi nei racconti horror degli anni Novanta. Quello, per intenderci, sempre illuminato da crudelissime luci al neon (un sesso che, inevitabilmente, è una barzelletta). È, al contrario, sempre un atto prezioso e intimo, compiuto nel silenzio di un magazzino tra i ciuffi dei fiori di cotone o sull’argine di un fiume, alla luce crepuscolare di un pomeriggio d’estate. In Le voci cieche il sesso non è semplice riempitivo narrativo, un modo come un altro per solleticare la pancia del lettore, bensì uno dei punti focali del romanzo - un atto che è un rito di passaggio - che ha in sé un germe divino. E chi ne abusa, chi ne fa sacrilegio riducendolo a mero atto muscolare, a sfogo brutale, merita la morte.
Perché, alla fine della fiera, più che una storia di freak e dei misteriosi poteri che agitano la mente, Le voci cieche è prima di tutto un romanzo di formazione. Un racconto d'estate. Un inno alla vita. A ciò che sempre e con caparbietà risorge e fiorisce dalle ceneri fumanti di un mondo fatto a pezzi per l'egoismo e la brutalità di un dio arrogante. La sola cosa che conti, in fondo: l'amore.
Angel rise con lei e di lei e per lei. Eseguì un tuffo rovesciato e un giro della morte. Nuotò nel sole, girandole intorno, adorandola. Si mise a testa in giù sopra di lei e la baciò così, capovolto. La prese per mano, e volarono e volteggiarono nel cielo come due rondini. [p. 169]